- Rapporti Stato-Mafia: Umberto Mormile sapeva troppe cose
- Dettagli chiave: emersi dopo oltre 30 anni
- Breve descrizione motivazioni sentenza primo grado
- Motivi richiesta appello
- Memoria depositata dalla parte civile, i familiari
- La decisione della corte d’Appello
- In conclusione
- Scrivi e fai video per Il Progressista
- Supporta Il Progressista
Assolto in appello Salvatore Pace, accusato di concorso nell’omicidio dell’educatore Umberto Mormile. Un delitto che intreccia mafia, apparati deviati e segreti di Stato, primo tassello di una stagione di sangue mai del tutto chiarita.
Umberto Mormile, educatore carcerario al carcere Opera di Milano, è stato ucciso l’11 aprile 1990. Il suo è stato il primo omicidio rivendicato dalla sigla “Falange Armata”, sigla che rivendicherà, tra gli altri, le stragi del 1992. Per il suo omicidio sono stati già condannati Franco Trovato, Antonio e Domenico Papalia come mandanti e Antonio Cuzzola e Antonio Schettini come esecutori.
Rapporti Stato-Mafia: Umberto Mormile sapeva troppe cose
Umberto Mormile era un educatore carcerario che lavorava al penitenziario di Opera, alle porte di Milano. Amava il suo lavoro, era stimato dai colleghi e credeva profondamente nella funzione rieducativa della pena: parlava con i detenuti, li seguiva nei percorsi di studio e lavoro, e credeva che la legalità potesse passare anche attraverso la fiducia.
L’11 aprile 1990, poco dopo le 8 del mattino, Mormile stava guidando la sua Alfa Romeo 33 grigia lungo la strada provinciale 412, in direzione del carcere dove prestava servizio. All’improvviso, venne affiancato da una moto con due uomini a bordo: il passeggero estrasse una pistola calibro 7,65 e sparò diversi colpi, colpendolo alla testa e al torace.
L’auto, fuori controllo, finì la corsa contro un albero ai margini della carreggiata.
Quando i soccorsi arrivarono, l’educatore era già morto. Aveva 37 anni, due figli piccoli e una moglie che lo aspettava a casa.
Le prime indagini parlarono subito di esecuzione mafiosa: la dinamica era perfetta, studiata nei dettagli, tipica degli omicidi “esemplari” di fine anni ’80.
Ma qualcosa non tornava. Mormile non era un politico, né un magistrato, né un poliziotto: era un funzionario dello Stato, un educatore.
Perché la mafia avrebbe voluto colpire proprio lui?
Col passare dei mesi emerse che la sua uccisione non era un fatto isolato.
Secondo gli inquirenti, Mormile aveva scoperto che alcuni agenti dei servizi segreti facevano visite riservate nel carcere di Opera sotto falsa identità, incontrando boss della ’ndrangheta, tra cui i fratelli Antonio e Domenico Papalia, originari di Platì (Reggio Calabria) e capi storici della potente ’ndrina radicata a Buccinasco, la cosiddetta “Platì del Nord”.
Mormile, uomo onesto e leale, avrebbe iniziato a parlarne con colleghi e conoscenti, preoccupato per quello che aveva visto.
Ma proprio quelle confidenze, rivelano le sentenze, lo resero un bersaglio: un testimone scomodo che aveva visto troppo e che rischiava di far emergere rapporti occulti tra Stato e criminalità organizzata.
L’agguato di Carpiano non fu dunque un omicidio come gli altri.
Fu un messaggio: chi tocca certi equilibri muore.
Ed è proprio da quella mattina d’aprile del 1990 che inizia una delle storie più inquietanti dell’Italia repubblicana — un caso in cui ’ndrangheta, apparati deviati dei servizi segreti e depistaggi istituzionali si intrecciano fino a confondere, ancora oggi, il confine tra verità giudiziaria e verità storica.
Dettagli chiave: emersi dopo oltre 30 anni
A più di trent’anni dall’assassinio, la giustizia italiana è tornata a occuparsi del caso Mormile grazie alle nuove rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia — tra cui Salvatore Pace e Vittorio Foschini — che avevano fornito versioni parzialmente diverse rispetto a quelle dei processi storici.
Entrambi erano stati membri della ’ndrangheta lombarda legata ai fratelli Papalia, ma successivamente avevano scelto di collaborare con lo Stato.
Secondo le nuove indagini della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, le loro testimonianze avrebbero potuto far luce su aspetti rimasti oscuri: in particolare, su chi avesse fornito mezzi e supporto logistico al commando che uccise Mormile e su eventuali mandanti esterni collegati ai servizi di sicurezza.
Nel 2022, il Tribunale di Milano condannò entrambi a sette anni di reclusione per concorso morale nell’omicidio.
Foschini accettò la sentenza, che divenne definitiva, mentre Pace fece ricorso, sostenendo di non aver mai avuto alcun ruolo operativo e di essere stato coinvolto solo indirettamente, come figura di contorno in una rete criminale più ampia.
A suo dire, aveva soltanto fornito una motocicletta, su richiesta di altri affiliati, senza sapere che sarebbe stata usata per un delitto.
Una versione che la Corte d’Appello, nel marzo 2025, ha accolto integralmente, stabilendo che “il fatto non sussiste” e che non vi era prova di una partecipazione consapevole all’omicidio.
Per comprendere il contesto in cui maturarono quelle accuse, bisogna tornare ai giorni immediatamente successivi al delitto.
Pochi giorni dopo l’uccisione, all’agenzia ANSA di Bologna arrivò una telefonata anonima firmata “Falange Armata”:
«A proposito di quanto avvenuto a Milano – il terrorismo non è morto.
Vogliamo che l’amnistia sia estesa anche ai detenuti politici.
Non importa chi siamo – ci conoscerete in seguito».
Era una rivendicazione insolita per un delitto di mafia: il linguaggio usato era quello di un gruppo politico eversivo, non criminale.
Ma proprio questo era il suo scopo: spostare l’attenzione dall’ambiente mafioso a un presunto fronte “terroristico” inesistente.
Sei mesi dopo, un’altra telefonata, questa volta firmata “Falange Armata Carceraria”, arrivò con toni ancora più inquietanti.
La voce anonima annunciava di aver “giustiziato Mormile” e minacciava altri quattro educatori penitenziari, accusati di essere “esecutori politici del loro ministero” e di applicare con eccessivo zelo la legge Gozzini, che prevedeva benefici per i detenuti che collaboravano o mostravano segni di ravvedimento.
Secondo gli inquirenti, la “Falange Armata” non fu mai un’organizzazione reale, ma una sigla di copertura utilizzata per depistare le indagini e confondere l’opinione pubblica.
Dietro quel nome, sostengono oggi diversi magistrati, si celavano frange deviate dei servizi segreti, che avevano interesse a mascherare un delitto di mafia come un atto politico o terroristico.
Il processo a Salvatore Pace si inserisce dunque in questa cornice: un tentativo di fare chiarezza sulle connessioni fra mafia e apparati di Stato, e di capire fino a che punto i collaboratori di giustizia — i testimoni che conoscevano dall’interno la struttura della ’ndrangheta — stessero raccontando la verità, o se le loro parole fossero state strumentalizzate nel corso degli anni per costruire nuove narrazioni giudiziarie.
L’omicidio di Umberto Mormile, quindi, non fu solo una vendetta di clan, ma un delitto di sistema: il primo segnale di una stagione in cui ’ndrangheta, servizi segreti e depistaggi si intrecciarono in modo profondo e indelebile nella storia italiana.
Breve descrizione motivazioni sentenza primo grado
Nella sentenza di primo grado, la condanna a 7 anni di Salvatore Pace si basava quasi interamente sulle sue stesse dichiarazioni.
Il Tribunale aveva ritenuto che, quando Pace aveva parlato del proprio coinvolgimento nell’ambito dell’omicidio Mormile, avesse di fatto ammesso un ruolo di collaborazione indiretta, ma utile alla riuscita del delitto.
In particolare, i giudici avevano interpretato come autoincriminazione alcune frasi con cui Pace spiegava di essersi “messo a disposizione” del gruppo criminale.
Secondo la Corte, ciò significava che l’imputato, pur non avendo partecipato all’agguato, aveva contribuito alla sua preparazione, fornendo mezzi e appoggio logistico.
Nel dispositivo della sentenza si legge:
«Ne consegue che il contributo concorsuale reso dall’imputato deve collocarsi, per stessa ammissione del dichiarante, nella fase preparatoria dell’agguato, a fase deliberativa già avvenuta, ma certamente prima della consumazione del fatto».
Per i giudici, quindi, Pace non era uno dei killer, ma faceva parte di quella rete di supporto che aveva permesso di organizzare l’omicidio.
La sentenza descrive il contesto in cui famiglie mafiose diverse, all’epoca, avevano trovato un’intesa per raggiungere obiettivi criminali comuni. In questo quadro, l’imputato avrebbe fornito “mezzi propri” — cioè motociclette rubate — e anche uomini di fiducia, rispondendo alla richiesta del gruppo che voleva “punire” l’educatore Mormile, ritenuto da loro “uno che si era comportato male”.
Come concludeva la sentenza:
«Il Pace, dunque, si era messo a disposizione nell’ambito e in favore del gruppo allargato e coeso che, all’epoca, famiglie diverse erano riuscite a comporre per il raggiungimento di obiettivi criminali comuni […] al fine di agevolare la realizzazione dell’azione omicidiaria propostagli».
In sintesi, il Tribunale aveva considerato Salvatore Pace un complice consapevole, pur non essendo presente sulla scena del crimine.
Secondo la legge italiana, infatti, chi agevola o fornisce mezzi per un reato grave come l’omicidio risponde dello stesso delitto alla stregua di chi materialmente preme il grilletto.
Motivi richiesta appello
La difesa di Salvatore Pace ha impugnato la sentenza di primo grado sostenendo che la condanna si basava su un grave errore di fondo. Secondo gli avvocati, Pace non poteva essere condannato per l’omicidio Mormile per una serie di motivi sostanziali e procedurali.
Primo punto: Pace non era mai stato imputato nei processi precedenti legati al delitto Mormile e, in più occasioni, era stato considerato dai giudici un collaboratore di giustizia credibile e attendibile.
Come può — ha chiesto la difesa — una persona che per anni ha collaborato con lo Stato e che in passato è stata ritenuta veritiera essere improvvisamente condannata come complice di un omicidio su cui aveva sempre negato ogni coinvolgimento?
In diversi procedimenti, infatti, Pace aveva dichiarato di non aver mai partecipato attivamente all’omicidio, limitandosi ad aver sentito parlare del progetto da Antonio Schettini, uno degli esecutori materiali.
Schettini gli avrebbe solo chiesto una moto, senza spiegargli il vero scopo.
Secondo la difesa, ciò non dimostrava alcuna complicità consapevole, ma semmai un coinvolgimento marginale e inconsapevole.
Secondo punto: gli avvocati hanno sollevato la questione della prescrizione del reato, ricordando che l’omicidio risale al 1990 e che, a distanza di più di trent’anni, le aggravanti — come la premeditazione e l’agevolazione mafiosa — erano già state escluse in primo grado.
Per la difesa, dunque, anche qualora fosse esistito un ruolo secondario, il reato sarebbe comunque prescritto.
Terzo punto: la difesa ha contestato l’utilizzo di alcune dichiarazioni rese da Pace in altri processi, come quello sull’“’Ndrangheta stragista” davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria nel 2018.
Quelle parole, secondo gli avvocati, non potevano essere riprese in un altro procedimento, perché riferite a contesti diversi e senza garanzie di contraddittorio.
Il Tribunale di Milano, invece, le aveva ritenute pienamente utilizzabili e decisive per la condanna.
Infine, la difesa ha messo in dubbio la credibilità di alcuni collaboratori di giustizia, sostenendo che le loro versioni fossero contraddittorie tra loro, rese a distanza di troppi anni dai fatti e in parte influenzate da interessi personali.
In sintesi, l’appello della difesa ruotava attorno a un concetto chiaro:
non esistono prove nuove, coerenti o decisive per collegare Salvatore Pace all’omicidio di Umberto Mormile.
Un concorso morale, se mai fosse esistito, non può essere fondato su dichiarazioni incerte e su presunzioni non suffragate dai fatti.
Memoria depositata dalla parte civile, i familiari
Il 7 marzo 2025 l’avvocato Fabio Repici, legale dei familiari di Umberto Mormile, ha depositato una memoria di parte civile molto articolata, chiedendo nuovi approfondimenti e l’acquisizione di documenti che, a suo giudizio, avrebbero potuto cambiare la prospettiva del processo.
Al centro di quella memoria c’era il cosiddetto “caso Equalize”, un’inchiesta che aveva portato alla custodia cautelare dell’ex commissario di polizia Carmine Gallo e aveva coinvolto anche l’avvocato Salvatore Verdoliva, difensore di Pace nel primo grado di giudizio.
Entrambi erano indagati per accesso abusivo a sistemi informatici e rivelazione di segreti d’ufficio, reati che avrebbero potuto gettare un’ombra sull’operato della difesa.
Secondo un’informativa dei Carabinieri, Verdoliva era stato nominato avvocato di fiducia da Pace pochi giorni dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini, nel maggio 2022.
In quel periodo, Pace era in contatto con Gallo, e proprio su suggerimento di quest’ultimo avrebbe scelto Verdoliva come legale.
La stessa informativa sottolineava che Verdoliva risultava domiciliato nella sede della società Equalize, diretta proprio da Gallo.
Il documento ricordava inoltre che Carmine Gallo, negli anni Novanta, era stato ufficiale di polizia giudiziaria e collaboratore della Procura di Milano nella gestione di numerosi collaboratori di giustizia, inclusi quelli che avevano testimoniato sull’omicidio Mormile.
Un dettaglio non secondario: secondo la memoria di Repici, ciò dimostrava una continuità di rapporti che avrebbe potuto condizionare le indagini e la difesa stessa di Pace.
A sostegno della sua tesi, l’avvocato Repici ha citato anche una testimonianza del collaboratore Antonino Cuzzola, resa l’11 marzo 2019, in cui il pentito parlava apertamente del ruolo di Gallo nei contatti tra Papalia, Ciccio Barbaro e altri uomini della ’ndrangheta, affermando:
«Ci sono state tutte quelle scarcerazioni a Nord e Sud in Appello, una massa di scarcerazioni che hanno fatto accordi coi Papalia e Ciccio Barbaro per liberare la Sgarella. Tutti questi accordi li ha fatti pure quello che lavora qua in Tribunale, Gallo […] quello che veniva nella gabbia a parlare e stava ore e ore con Antonio Papalia è Gallo».
Per l’avvocato Repici, queste dichiarazioni rafforzavano il sospetto che Gallo avesse avuto un ruolo ambiguo sia nella gestione dei pentiti sia nei rapporti tra criminalità e apparati dello Stato.
Per questo motivo, ha chiesto alla Corte di dichiarare l’incompatibilità dell’avvocato Verdoliva, vista la sua vicinanza professionale e personale con Gallo, e di rinnovare l’istruttoria ascoltando il tenente colonnello David Pirrera e lo stesso Gallo (all’epoca indagato in un procedimento connesso).
L’obiettivo era chiarire se ci fosse stata un’ingerenza esterna nella difesa di Pace e se dietro tutto ciò vi fossero legami con ambienti dei servizi segreti volti a escludere ogni ipotesi di coinvolgimento statale nell’omicidio Mormile.
Dopo il deposito della memoria, Pace ha revocato il mandato a Verdoliva e nominato come nuova difensore l’avvocata Maria Luisa Marini Borgato.
Nel frattempo, Carmine Gallo è deceduto.
Infine, l’avvocato Repici ha chiesto anche l’acquisizione di una lettera di diffida inviata da Gallo e Verdoliva alla redazione di Milano Today con l’oggetto:
«DIFFIDA A RIMUOVERE O RETTIFICARE L’ARTICOLO LESIVO DELLA REPUTAZIONE DEL DOTT. CARMINE GALLO».
La diffida si riferiva a un’inchiesta giornalistica pubblicata il 24 febbraio 2025, firmata da Fabrizio Gatti, e intitolata:
«Dal giornalista Alfano (ucciso) a Squadra Fiore: ecco dove porta l’indagine su Carmine Gallo — in 10 punti».
Un documento che, per la parte civile, mostrava ancora una volta l’interferenza di figure esterne — uomini dello Stato, investigatori e legali — in un caso che, da più di trent’anni, continua a rappresentare uno dei nodi più oscuri dei rapporti tra mafia e istituzioni.
La decisione della corte d’Appello
La Corte d’Appello ha respinto le richieste istruttorie della parte civile (memorie Repici), ma ha sottolineato che esse imponevano premesse e decisioni preliminari, a partire dalla genesi del processo, non più «superflua» — come sarebbe stata in assenza di quelle memorie — bensì “oltremodo esplicativa e dirimente” per l’approdo giudiziario.
Nel merito, la Corte afferma che, depurate da «suggestioni e forzature», le novità invocate (confessioni sopravvenute, precisazioni aggiuntive di datate chiamate in correità) non apportano «nulla di più e di diverso» rispetto a quanto già cristallizzato dalla attività investigativa e istruttoria del passato. In motivazione si legge:
«L’attività investigativa ulteriormente compiuta, per individuare altri corresponsabili (morali) e accertare in via definitiva il movente sotteso al crimine commesso, con le sue pretese novità processuali — id est: “confessioni” sopravvenute e precisazioni aggiuntive di (datate) chiamate in correità — con riguardo all’unico tema che si ha titolo per esaminare e decidere (il ruolo giocato da Pace Salvatore nel delitto per cui è causa), depurata da suggestioni e forzature, non ha in realtà apportato, in fatto, nulla di più e di diverso, in termini di verità processuale, di quanto era già stato assicurato agli atti dalla puntuale, scrupolosa, approfondita attività investigativa ed istruttoria del passato».
In sostanza, per la Corte d’Appello è accertato che Salvatore Pace, tramite Cassaniello, consegnò soltanto una moto non marciante (e dunque mai utilizzata nell’omicidio). Tale condotta non integra il concorso nel reato.
Cadono quindi, per il giudice d’appello, sia i punti sollevati dalle parti civili, sia le letture storico-ricostruttive che eccedono l’oggetto specifico del processo.
Per questi motivi, Pace viene assolto “perché il fatto non sussiste”.
In conclusione
La sentenza di assoluzione di Salvatore Pace non chiude solo un processo, ma anche un lungo capitolo della storia giudiziaria italiana che si trascina da oltre trent’anni.
L’omicidio di Umberto Mormile, primo delitto rivendicato dalla Falange Armata, resta infatti una ferita aperta nella memoria collettiva: un caso in cui mafia, servizi segreti e Stato deviato si sono intrecciati fino a rendere labile il confine tra verità e menzogna, tra giustizia e ragion di Stato.
Con questa decisione, la Corte d’Appello di Milano ha sancito che non esistono prove sufficienti per collegare Pace all’agguato, né nuovi elementi che possano modificare la ricostruzione giudiziaria consolidata. Ma il verdetto lascia irrisolta la domanda più grande: chi e cosa volle davvero la morte di Umberto Mormile?
Dietro la freddezza degli atti giudiziari rimane la figura di un uomo che credeva nel proprio lavoro e nel valore della rieducazione, ucciso probabilmente perché aveva visto troppo.
A trentacinque anni di distanza, il suo nome continua a rappresentare una storia scomoda e mai del tutto chiarita, simbolo delle zone d’ombra della Repubblica e di una verità che, pur cambiando forma nei tribunali, resta ancora da completare.
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