Sotto la superficie di Fedez. Recensione lunga del nuovo libro

Camilla Fois

Fedez si racconta nella sua biografia: L’acqua è più profonda di come sembra da sopra

Luci e ombre di un personaggio controverso della cultura pop italiana: dall’infanzia difficile e l’approdo nella scena musicale, fino alla depressione, al tentato suicidio e alla lenta risalita verso la vita.

Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, è nato a Milano il 15 ottobre 1989. Rapper, imprenditore e personaggio della cultura pop italiana, è cresciuto tra Corsico, Buccinasco e Rozzano, periferie che hanno plasmato la sua identità e la sua musica. Ha pubblicato sei album in studio: da Penisola che non c’è (2011) a Disumano (2021) e per anni è stato giudice di X Factor, portando il rap nelle case di tutti.

Oltre alla musica, ha costruito un impero mediatico con Muschio Selvaggio e, più di recente, Pulp Podcast, due format dove mescola ironia, attualità e riflessione sociale.
Nel 2016 inizia la relazione con Chiara Ferragni, con cui si sposa e ha due figli: Leone e Vittoria. Dopo anni da coppia più esposta d’Italia, i due divorziano nel 2024.

E così, nel 2025, Fedez decide di raccontarsi senza filtri nella sua autobiografia: L’acqua è più profonda di come sembra da sopra, un viaggio tra provincia, politica, amore e salute mentale — che proveremo a sviscerare insieme in questo articolo.

Scrittura del libro di Fedez

L’autobiografia di Fedez è stata pubblicata quest’anno, dopo una serie di eventi dolorosi che lo hanno profondamente segnato: dal tumore, alla depressione, al caso Muschio Selvaggio e al Pandoro Gate.

In particolare, nel libro calca la mano sui disturbi psichiatrici che negli anni lo hanno portato ad attraversare fasi depressive molto pesanti, sfociate sia in tentativi di suicidio, sia periodi maniacali di estrema libertà e incoscienza: tra uso di sostanze e gesti plateali. Ma andiamo con ordine.

La prima parte è fortemente incentrata sulla sua infanzia e sull’ascesa verso il successo. Fedez ammette apertamente che non avrebbe voluto scriverla, perché non gli piace tornare con la mente alle origini e ripercorrere quella spirale di eventi negativi: il grigiore della provincia, il bullismo, un ambiente intriso di rabbia e violenza. Ma è anche la parte in cui si respira più verità e che permette al lettore di empatizzare con il Federico uomo piuttosto che con il Fedez personaggio pubblico.

Un’altra parola chiave per descrivere il libro è fame. Fame come desiderio, forse. In ogni pagina emerge questa spinta a elevarsi, a emergere dal fango in cui è nato.

Nonostante il successo, complice, come dice lui, il pessimismo cronico che lo caratterizzano, non si è mai montato la testa per quello che ha raggiunto; è sempre rimasto con i piedi per terra e con la paura atavica di tornare povero.

Una parte piuttosto consistente del libro tocca anche aspetti più gossippari, raccontando l’ascesa e la caduta dei Ferragnez: la loro compatibilità, i loro difetti e le conseguenze del caso Pandoro Balocco, sollevato da Selvaggia Lucarelli, che ha finito per allontanarli.

Non si può di certo dire che sia un capolavoro: il libro è scritto come un flusso di coscienza, apparentemente lineare, ma in alcuni capitoli manca di continuità. A tratti gli eventi sembrano slegati, raccontati senza un filo conduttore preciso.

Nonostante ciò, resta una lettura piacevole, e da qui possiamo partire insieme per alcune riflessioni

Vivere in Provincia

Come ho già anticipato nell’introduzione, Federico cresce nella periferia milanese tra Corsico, Buccinasco e Rozzano.

La torre telecom di Rozzano, il paese dove è cresciuto Fedez.

I luoghi narrati sono cupi, il grigio è rappresentato come una condizione esistenziale: quartieri senza prospettive, dove non esiste il futuro e gli adulti tirano avanti spaccandosi la schiena per cercare di non far mancare nulla ai figli. Tutto resta lontano dalla Milano brillante e patinata che appare in TV e dall’attico a City Life dove per anni Federico ha abitato.

In periferia i ragazzi imparano presto la durezza: la violenza è un linguaggio quotidiano, dentro e fuori casa. Fedez ce lo racconta così parlando dei suoi genitori, ma anche dei suoi coetanei:

«Si sono incontrati in una discoteca quando avevano tredici anni… Stanno insieme da allora e non riescono a parlare senza urlare uno addosso all’altra. Una vita intera a gridarsi contro... Sono cresciuto in un ambiente in cui il menù era sempre lo stesso, e il piatto del giorno era il bullismo, la prevaricazione, la legge del più forte che campa sottomettendo il più debole. Se eri diverso, non solo esteticamente, ma anche giusto un po’ introverso, avevi già perso in partenza».

Ci introduce la spietata vita di Provincia, dove la scoperta di sé passa anche attraverso esperienze premature.

Quando la famiglia si trasferisce tra le risaie di Pavia e Milano, il vuoto si fa ancora più tangibile, attorno alla loro casetta c’è solo una cartiera e una strada di prostitute. È lì che Federico, giovanissimo, perde la verginità pagando trenta euro.

Un episodio quasi simbolico, la provincia come luogo che ti lascia sopravvivere, senza educarti. «La periferia è così, a volte senti un freddo esistenziale che ti si infila dentro e non te lo togli più, neanche ad agosto.»

Quando Federico inizia la terza superiore, la sua famiglia si trasferisce a Rozzano, estrema periferia sud di Milano, lì la popolazione è più variegata: c’è chi per qualche motivo ce l’ha fatta e chi invece arranca, come la famiglia di Federico.

Al centro di tutto, svetta la Torre Telecom, costruita nel 1990: un mostro di cemento alto 187 metri che, di notte, lascia intravedere solo le sue luci.

«Di notte sparisce: rimangono soltanto le luci, che si vedono anche a decine di chilometri di distanza. Quante sere, rincasando, è stata una specie di stella polare, l’indicatore che, da qualunque parte stessi arrivando, ti ricordava dov’era la base… Quando con Chiara abbiamo comprato l’attico a CityLife, dal terrazzo, la prima notte, ho visto quella torre in lontananza: mi sono emozionato, mi sono commosso.»

Quella torre, come ho riportato con la citazione, è la sua stella polare, il punto fermo che gli ricorda da dove arriva e dove ha paura di tornare. È un’immagine potentissima: la consapevolezza che, anche quando cambi tutto, qualcosa di te resta inchiodato al punto di partenza: puoi guadagnare milioni, comprare una Ferrari, avere rapporti di amicizia con esponenti politici, ma quel desiderio mista a paura che ti dà la provincia non te la scollerai mai.

A distanza di oltre vent’anni, le periferie non sono cambiate molto. Restano luoghi ai margini, dove la vita è  fatica senza prospettiva. Spazi che non includono ma respingono, dove l’unica regola è arrangiarsi e sopravvivere.

Casi come quelli di Federico sono l’eccezione: un caso su un milione, uno di quelli che riesce a scappare senza dimenticare.

Nel suo racconto, la Torre Telecom rappresenta un richiamo viscerale, il promemoria delle radici che non puoi recidere. Ci avvolgono l’anima, restano incise sottopelle anche quando ti trasferisci in un attico a CityLife, dentro di te c’è sempre una parte che continua a guardare quella torre in lontananza e a chiedersi se, da qualche parte, il freddo di Rozzano non ti abiti ancora.

Scuola

Il fallimento della provincia sui giovani è reso tangibile anche attraverso la scuola: il primo deterrente sono le distanze geografiche, più di un’ora per raggiungere il suo liceo col motorino. Le distanze, tuttavia, si misurano anche in un altro modo:

Federico, nel suo paesino, era il più bravo della scuola a disegnare. Ma quando arriva a Milano, quella certezza si sgretola: scopre che il suo talento non è raro.  In città si accorge di non essere un prodigio, ma uno dei tanti. In provincia il talento si misura in scala ridotta. Mancando il confronto basta poco per sembrare eccezionali.

Il Liceo Artistico Statale Umberto Boccioni di Milano, la scuola superiore di Fedez

«… arrivano i test: copiare un manichino. Lo faccio ma, buttando un occhio al lavoro degli altri, mi rendo conto che il mio talento è rilevante giusto a Buccinasco. A Milano, tra gli aspiranti artisti della città, sono scarsissimo.»

La scuola, nel suo racconto, è un luogo di sopravvivenza emotiva. Un’arena darwiniana dove la violenza è linguaggio comune: quella subita dai compagni e quella restituita ai più deboli. Addirittura un giorno arriva a spintonare la professoressa dopo aver ricevuto un suo schiaffo (ah, la scuola montessoriana! ndr).

Non essendo un prodigio nel disegno, come detto poco sopra, lo scaltro Federico deve trovare un escamotage per non farsi bocciare: ruba le tavole da disegno dei suoi compagni che tra una lezione e l’altra vengono conservate dentro un armadio. Il tutto si complica quando viene scoperto.

Le bocciature si accumulano, i voti già bassi peggiorano e la scuola finisce per respingerlo del tutto. Quando torna a casa con lo zigomo spaccato e l’occhio nero, la madre gli concede un patto: smettere di studiare, purché inizi a lavorare.

In realtà Federico non è mai stato portato per quell’ambiente. Ha sempre avuto il desiderio sì di scoprirsi ed emergere, ma non attraverso i libri, bensì con la creatività.

Nonostante gli spiacevoli episodi vissuti a scuola, conserva anche dei bei ricordi: è lì che ha iniziato a  porre le basi per diventare quello che è oggi: tra i contest di freestyle e l’avvicinamento alla politica grazie ai centri sociali.

I centri sociali – nascita di Fedez cantante

Accanto alla sua scuola c’era Il Cantiere, un luogo che descrive con una certa nostalgia e che definisce formativo, nel bene e nel male. Anche in questo contesto, però, il piatto principale resta la violenza:

«Ricordo le volte che quelli del Cantiere venivano a fare casino fuori dall’istituto, picchiando ragazzi per ragioni che in realtà non sempre perfino i malcapitati capivano. Una volta hanno preso a botte un mio compagno di classe, dicendogli: “Ti vesti da fascista.” Ma il tipo stava lì, spaesato, non sapeva nemmeno cosa volesse dire “fascismo”. Io devo dire che rimasi affascinato da quel brivido di squadrismo di sinistra, mi gasava, cominciai a frequentarli, a immergermi nella loro realtà fatta di contestazione e serate di rap improvvisato. Inizio a fare rap all’interno di quella che poi era una casa occupata. La politica entrò prepotente nella mia vita, tra workshop e le prime manifestazioni, dove le bombe carta volavano come coriandoli di un carnevale rovesciato.»

Quel centro sociale lo forma e, allo stesso tempo, gli insegna un modo più crudo e istintivo di vivere la politica. È un’educazione alla rabbia, ma anche alla libertà, che lascia un segno profondo nel suo modo di pensare.

Il centro sociale Cantiere di Via Monterosa 84 dove Fedez ha iniziato a esibirsi

In questa citazione colgo un sottotesto di critica, un invito implicito a riflettere su come oggi si faccia politica: fatta di slogan e frasi fatte, spesso priva di ideali forti, basata su convinzioni personali che raramente trovano spazio per esprimersi davvero.

A differenza degli anni dal 2015 (il mio primo anno di liceo) a oggi, allora la scuola era un vero punto di aggregazione. Ci si trovava per discutere di politica, per confrontarsi su temi sociali, per sentirsi parte di qualcosa. Era una forma di socialità che oggi sembra quasi scomparsa.

Federico racconta una politica vissuta sulla pelle, collettiva. Io, per esempio, da figlia del mio tempo, la percepisco lontana, quasi incorporea: un ologramma, un foglio di carta velina che si piega al primo soffio di vento.

Nei centri sociali, come anticipato, si organizzavano anche gare di freestyle: competizioni tra rapper in cui si improvvisano testi in rima su una base musicale casuale . Spesso lo scopo è insultare l’avversario — un po’ come il dissing Fedez–Tony Effe, ma fatto da quindicenni e in tempo reale. Le sfide funzionavano come veri tornei, fino alla finale e alla proclamazione del vincitore.

Storica battle della Finalissima del Tecniche Perfette 2007 in cui Dank vince contro Fedez

Oltre ai centri sociali — “i più disagiati di Milano”, come si definisce lui stesso in un capitolo — Federico frequenta anche il Muretto.

«A Milano c’era un luogo dove le persone più disagiate si incontravano, ma non pensate alla solita periferia. È il Muretto, in pieno centro, accanto a corso Vittorio Emanuele, dove una scala ti portava dritto al McDonald’s.»

Dopo aver abbandonato la scuola, è proprio al Muretto che Federico trova un nuovo punto di riferimento: un luogo di aggregazione spontanea tra coetanei. Ci si incontrava per fare gruppo e costruire un’identità.

Lì si mescolavano persone di ogni tipo: rapper, ragazzi extracomunitari ma anche qualche fighetto che frequentava delle discoteche milanesi. Tutti si ritrovavano dietro quel muretto, a pochi metri dalla “Milano bene” che faceva shopping nei negozi di lusso.

Quel posto, racconta, è stato una palestra di vita e di musica.

«È al Muretto che ho iniziato a fare davvero musica: provando, fallendo, scrivendo cose buone o cose di merda.»

Da lì sono passati tutti: rapper del Nord e del Sud, futuri artisti e meteore. Ma solo in pochi sono riusciti a emergere davvero: Fedez, Emis Killa, Ghali.

Chi non conosce il famoso “muretto dell’HipHop” a San Babila?
È un luogo culto per il rap italiano che avrete sicuramente già sentito nominare se avete mai ascoltato qualche rapper italiano come Fabri Fibra, Marracash, Jake La Furia, Guè, Emis Killa e chiaramente Fedez.

Dalle case occupate alle vette delle classifiche musicali

«Sono stati anni strani quelli, anni a volte di noia, a volte di euforia, di creazione e di ozio. Gli anni che per tutti, anche per chi fa l’ingegnere o l’idraulico, sono gli anni di formazione.»

I vent’anni di Federico sono esattamente così: disordinati e pieni di contraddizioni.
In un periodo dei suoi twenties vive in una casa occupata che, in teoria, il Comune avrebbe dovuto assegnare alla famiglia di un amico, ma, a causa della lentezza della burocrazia italiana, l’amico non riceve mai le chiavi e così decidono di occuparla.
La casa è sporca, infestata da scarafaggi — un habitat che sembra la proiezione fisica del suo caos interiore.

Nel frattempo, aiuta i genitori nel bar che hanno preso in gestione, un tentativo fallito come tanti: Federico non ha l’attitude giusta per interagire con le persone.

Cambia spesso vita, arrivando a gestire persino un negozio di tatuaggi con la fidanzata dell’epoca. È il classico periodo in cui si prova tutto, senza sapere davvero chi si è.

Poi arriva la svolta. Con il suo primo stipendio si compra una videocamera: è il suo biglietto d’uscita.
Nasce così Penisola che non c’è, un video girato con mezzi minimi ma idee giganti.

«Con altri mille euro che avevo tirato su, ho registrato Penisola che non c’è, in cui parlavo quasi solo di politica, tutto riflessioni sociali. Un territorio pressoché inesplorato dai rapper della mia generazione, tutti fissati con denaro e virilità.»

Fedez nel brano di prima svolta “PENISOLA CHE NON C’è”

È lì che Federico inizia a distinguersi. La sua voce si stacca dal coro: in questo testo parla di lavoro, dei ministri con stipendi d’oro e del ventennio berlusconiano.

Ed è proprio questo l’aspetto che ancora oggi lo rende diverso dai soliti cantanti: Fedez, con la musica, ha sempre voluto raccontare qualcosa e non gliene è mai fregato niente di essere una persona divisiva.

Non ha mai creato brani fini a se stessi; nei suoi testi c’è sempre un velo di critica sociale. È probabilmente questo che gli ha permesso di scalare le classifiche — il differenziarsi e il dire le cose giuste al momento giusto.

Dopo Penisola che non c’è arriva Jet Lag, un pezzo che manda in tilt YouTube Italia.
In 24 ore fa record di visualizzazioni: sarà il video più visto dell’anno.

Fedez con “JET SET” si accredita nella scena nazionale

Fedez non è ancora sotto una major, eppure riesce dove molti falliscono: parla alla gente come uno di loro.

Quando il successo finalmente arriva, Federico lo vive come un paradosso. Ripaga i debiti dei genitori, ma dentro resta lo stesso ragazzo inquieto. Ha paura di tornare povero, di perdere tutto da un momento all’altro. Forse è proprio questa paura a tenerlo vivo, a impedirgli di anestetizzarsi dal successo.

È talmente incredulo del “potere” che ha tra le mani, della serietà in cui si stanno mettendo le cose, che il giorno prima del colloquio per diventare giudice di X Factor si droga con dell’MD. Arriva al casting completamente fatto come un drago, eppure lo prendono lo stesso.
È come se l’instabilità fosse il suo marchio di successo.

Politica: la disillusione

Il primo album di Federico è un manifesto politico, o almeno lo è nella sua testa di ventenne: un ragazzo che osserva il mondo dal basso, arrabbiato ma ancora ingenuamente fiducioso.
Quel successo lo porta a sfiorare la politica reale, quella fatta di partiti e giochi di potere. In quegli anni entra in contatto in particolare con il Movimento 5 Stelle, la forza antisistema che prometteva di ribaltare l’Italia dopo il ventennio berlusconiano.

Fedez nel 2015 quando supportava il M5s

Federico ci crede. È convinto che il cambiamento sia possibile e che un Paese sporco e immobile possa rimettersi in moto. Poi, con il tempo arriva l’inevitabile delusione: ammette che non è andata così, e che forse, oggi, siamo messi persino peggio.

Quando scopre che il quartier generale del Movimento si trova in via Monte Napoleone, nel cuore del lusso milanese, capisce che qualcosa non torna. Come può un partito che si definisce “popolare”, nato per rappresentare chi viene dai centri sociali, avere il suo centro operativo nel salotto buono della città?
È il primo campanello d’allarme.

«Capii che il Movimento era già troppo immerso nelle dinamiche del potere per poter rappresentare un reale cambiamento: non era più un “portiamo le idee in piazza”, ma solo una corsa a portarsi voti a casa. Erano già stati risucchiati dal palazzo. Da quel momento, pur mantenendo rapporti formali, ho iniziato a prenderne le distanze.»

Da lì in poi, il suo sguardo sulla politica cambia del tutto e si riflette ancora oggi nei contenuti che porta nei suoi podcast e nelle sue canzoni.

Per Federico la sinistra ha perso il contatto con la realtà, basti guardare gli ultimi video del suo podcast

Fedez vs Ultima Generazione a Pulp Podcast

Quelli di Ultima Generazione che non riescono ad argomentare in modo efficace le domande incalzanti di Federico e Davide Marra; nel dibattito Israele/Palestina dove un esponente Pro Pal si rifiuta di dibattere con un Pro Israele O la Schlein che si rifiuta di partecipare a questo podcast, decidendo invece di andare in posti più safe come Che Tempo Che Fa.

Quindi secondo Federico, la sinistra ti usa quando le servi e ti dimentica quando non sei più utile. La destra, per quanto rozza e piena di contraddizioni, almeno resta coerente — non si nasconde dietro la patina moralista delle “belle parole”. E questo, lo possiamo vedere benissimo sempre su Pulp Podcast, esponenti come Vannacci, che nonostante abbiano idee controverse e smontabili comunque ha deciso di esporsi.

Durante la malattia, quando gli diagnosticano per caso un tumore neuroendocrino al pancreas, non sono gli amici di sinistra a farsi vivi, ma Matteo Salvini.
Settimana dopo settimana, gli scrive per sapere come sta. Un gesto piccolo, ma che Federico non dimentica.

«Per un mese, ogni settimana mi ha scritto per sapere come stavo. L’ho apprezzato. Il che non cambia la mia valutazione sul Salvini politico, ma cambia quella sul Salvini uomo. Persone con cui avevo rapporti migliori, invece, non ci sono state: Di Maio, Conte — non pervenuti. Ti scrivono solo quando hanno bisogno di te, quando serve usarti… quando puzzi di merda quelli di sinistra si allontanano da te, mentre quelli di destra, dato che alla puzza di merda ci sono abituati, riescono a continuare a rivolgerti la parola, non spariscono.»

Dietro la provocazione, c’è una ferita vera: la consapevolezza che la politica italiana — in qualunque forma — si nutre di consenso e di convenienza. E che, per chi come Fedez ha sempre cercato autenticità, non esiste delusione più grande.

Chiara

Ed eccoci al capitolo più atteso, quello che tutti avremmo voluto sentirci raccontare da Federico in persona, magari davanti a uno spritz e a un tagliere di focacce durante un’apericena qualunque. La prima volta che incontra Chiara sono entrambi fidanzati, e si trovano per caso allo stesso tavolo, a un pranzo tra amici comuni.

La prima cosa che lo colpisce è un dettaglio piccolo: la luminosità della sua pelle. Si rincontrano nel 2016, dopo l’uscita di Vorrei ma non posto (ricordate? “Il cane di Chiara Ferragni ha il papillon di Vuitton, ed un collare con più glitter di una giacca di Elton John”) e da lì è storia.

La verità è che nella nascita di quella relazione non c’è nulla di straordinario. È una storia come tante: inizi a uscire con qualcuno perché qualcosa ti incuriosisce, anche un dettaglio apparentemente insignificante, e poco alla volta ti ritrovi immerso nel suo mondo. Nel loro caso, però, quei mondi erano opposti: quello di Federico, grigio, pieno di ostacoli e di un senso costante di precarietà, e quello di Chiara, dorato e patinato.

Poi arriva la fase della scoperta reciproca, quella in cui ci si apre e ci si racconta mostrando le parti migliori e quelle  più difficili. I giorni diventano settimane, le settimane mesi, e, senza quasi accorgersene, quegli incontri si trasformano in anni, fino a costruire un progetto di vita condiviso: un matrimonio, una figlia, un figlio e tutto ciò che comporta la quotidianità.

«La verità è che a volte non succede niente di speciale. Solo che ci si comincia a stare addosso e ci si trova comodi. E poi magari ci si affeziona. O ci si fa del male. O tutte e due le cose. Io ho una testa semplice, va bene? Non ho bisogno di leggende. Mi bastano i fatti: lei era lì, viva, con il suo mondo abbagliante, e per qualche motivo io ci sono entrato. Succede così, a chi ha fame… Eravamo diversi, sì. Mondi lontani. Ma ci incastravamo. Come due pezzi storti di un puzzle difficile. Storti, ma funzionava. Il problema è che anche le cose che funzionano a volte fanno male. I conflitti c’erano.»

Per Federico, quella con Chiara è la relazione più importante della sua vita. Ammette le liti e le incomprensioni ma anche quella sensazione inebriante di essere vivo, come una fiamma che brucia nel camino. In fondo, come dice lui stesso, erano due pezzi storti di un puzzle difficile, ma proprio per questo si incastravano alla perfezione.

Federico, purtroppo, si ritrova catapultato in un mondo che non aveva mai immaginato né sperato: quello dei “Ferragnez”, una relazione privata che diventa progressivamente un fenomeno pubblico, un amore trasformato in brand, in politica, in cultura pop.

La serie Ferragnez

«Si tratta di essere nel posto giusto al momento giusto. E noi siamo stati evidentemente ciò che il pubblico voleva nel momento in cui lo voleva. È come un allineamento di pianeti, e noi ci siamo fatti trovare pronti.»

Chiara nuotava bene in quella dimensione; Federico no. E proprio dai suoi racconti si percepisce il disagio crescente, quella sensazione di trovarsi dentro un’illusione perfettamente costruita, ma non sua. È da lì che nasce, lentamente ma in modo inesorabile, la crepa che negli anni diventerà frattura.

 Abissi

Il 2023, per Federico, segna una discesa lenta negli abissi. Chiara viene invitata come presentatrice a Sanremo, mentre lui ha appena iniziato la terapia con gli psicofarmaci e racconta di vedere per la prima volta il mondo “a colori”.

«Camminavo per New York e mi sembrava di vedere tutto per la prima volta. I colori, i rumori, i volti. Come se avessero acceso il mondo e io fossi l’unico a saperlo. Ridevo per niente. Amavo tutti. Ero felice di essere felice, anche se non c’era un cazzo da essere felici.»

Ma quella luce dura poco. Fedez soffre il fatto di non essere parte del Festival: vede la moglie sul palco, in un ruolo non suo, mentre lui — cantante di professione — resta fuori. Ciò gli pesa come un’ingiustizia personale. Aveva avuto il via libera da Amadeus per partecipare come concorrente, ma dopo le polemiche legate all’edizione con Francesca Michielin sceglie di evitare. Così decide di esserci comunque, ma a modo suo: porta a Sanremo il suo podcast, Muschio Selvaggio, all’apice del successo.

Quel Festival è un concentrato di euforia e instabilità. Federico non dorme, beve, fuma a tutte le ore, organizza festini, insomma, vive in uno stato che lui stesso descrive come maniacale.

Quando sale sulla nave Costa Smeralda, ospite del Festival, canta un freestyle senza filtri, come alle sue origini, in cui attacca prepotentemente politici e temi di attualità, scatenando la furia tra i vertici Rai. Il vero scandalo, tuttavia, arriva poco dopo: il bacio con Rosa Chemical, preparato a tavolino e già discusso durante una puntata di Muschio Selvaggio, con tanto di accordo sul posto esatto in cui fosse seduto.

Il bacio tra Fedez e Rosa Chemical

Quella scena, si rivela essere un gesto costruito, ma comunque dirompente, soprattutto perché consumato sotto gli occhi dei familiari di Chiara. Lei, dietro le quinte, è a pezzi.

Dopo Sanremo, la spirale si fa più buia, e i problemi non sono solo quelli con Chiara: Federico interrompe di colpo i farmaci, subendo gravi effetti collaterali che lo costringono a passare quindici giorni a letto in uno stato di delirio, come in una crisi d’astinenza da eroina. Non distingue più la realtà dalla finzione. E quando crede di aver già toccato il fondo, arriva un nuovo colpo: Luis Sal, suo socio e amico, lo chiama per dirgli che vuole lasciare Muschio Selvaggio. È il tradimento definitivo, l’ennesima perdita, la conferma di un isolamento che si fa totale.

La video risposta di Luis Sal a Fedez su Muschio Selvaggio

È difficile non provare empatia leggendo queste pagine. Chiunque, in una condizione simile, sarebbe crollato. Passare dall’essere sulla vetta a precipitare nel vuoto è come lanciarsi dall’Empire State Building senza paracadute.

Crisi

La crisi con Chiara, quindi,esplode definitivamente dopo Sanremo. È l’anno in cui tutto si rompe: se un tempo i Ferragnez avrebbero affrontato insieme le difficoltà, questa volta le differenze si fanno insormontabili.

Chiara è circondata dalla solita élite milanese, fatta di architetti di fama, creativi, professionisti del design e della moda, un ambiente che per Federico diventa ancora più soffocante del solito. Li trova snob, falsi, distanti da lui preferendo la compagnia di persone più autentiche, a volte persino “schifose”, come le definisce lui, ma vere, vive, umane.

«L’azienda di mia moglie io la vedevo come il Rotary Club, e di conseguenza trattavo tutti come tratto gli snob. Ovvero peggio di come loro trattano gli altri.»

Racconta anche di aver assistito a scene surreali in cui la famiglia di Chiara discuteva su quanti post lei avrebbe dovuto pubblicare per promuovere il libro della madre. I suoi genitori, invece, restano ancorati a un mondo più semplice e concreto: cucinano, aiutano con i bambini, vivono i social con la spontaneità dei “boomer”.

In casa Ferragni, invece, tutto ruota intorno all’immagine. Le priorità sono la reputazione, l’estetica, il controllo del racconto. L’obiettivo non è tanto essere, quanto sembrare: mantenere una facciata perfetta, anche a costo di nascondere la verità. È una logica che domina anche nelle produzioni come la serie The Ferragnez, dove ogni frammento di realtà viene filtrato. È mostrato il bello e nascosto il difficile, contro il parere di Federico.

Per Fedez, tutto questo è inaccettabile. Non sopporta la costruzione artificiale, non tollera la falsità delle narrazioni perfette. Vuole raccontare la realtà per com’è, anche quando fa male.

Pandoro gate

Il Pandoro Gate esplode in un momento in cui la coppia Ferragni-Fedez è già in una fase di profonda crisi. Non è la causa, ma piuttosto la miccia che accende tensioni latenti da tempo, rendendole finalmente visibili anche all’esterno. Federico, nel libro, sostiene che Chiara non sia mai stata realmente una grande esperta di business: ha sempre delegato, anche su questioni che dovrebbero essere strettamente legate al ruolo di una CEO, come la visione strategica del brand o la gestione del denaro. È un tipo di leadership più carismatica che manageriale, costruita sull’immagine più che sul controllo operativo, e spesso proprio per questo finisce per generare errori evitabili.

In più, scrive Fedez, Chiara non avrebbe una particolare dimestichezza nemmeno con la comunicazione o con la gestione aziendale in senso stretto, preferendo affidarsi a figure esterne — manager, agenzie, consulenti — che, di fatto, decidono per lei. Il risultato, inevitabilmente, è che chi maneggia la sua immagine finisce spesso per combinare disastri. Emblematico, in questo senso, un passaggio del libro in cui Federico racconta che, all’inizio della loro relazione, quando ancora non era diventato un personaggio mediatico di primo piano, già guadagnava il doppio di Chiara, nonostante lei avesse alle spalle un marchio consolidato anche all’estero e un team di circa quaranta dipendenti.

Col passare del tempo, queste differenze si fanno sempre più evidenti, non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto sul piano valoriale. Emergono tensioni tra i rispettivi team — quelli di Chiara considerati da Fedez “snob”, quelli di Fedez percepiti da lei come “poveri arricchiti” —, segno di una distanza che va oltre il carattere o lo stile di vita. È il classico scontro tra due mondi che non riescono più a parlarsi: quello della comunicazione patinata e quello della verità cruda, del vissuto senza filtri.

Ma il problema non è mai stato solo il Pandoro Gate. Le fratture più profonde emergono in altri momenti, come nel caso del Fashion Trust della Moda, episodio che Fedez racconta con toni di aperto dissenso.

«È iniziato quando ho scoperto che era coinvolta in qualcosa chiamato Fashion Trust della Moda, in cui c’è Umberta Gnutti Beretta, parte di una famiglia che produce armi e che guadagna montagne di soldi grazie alla guerra, compresa quella in Palestina. Potrebbero facilmente fabbricare solo armi da caccia, e invece scelgono di continuare a produrre e vendere armi da guerra. E, ancora peggio, di fornirle in contesti con cui non voglio avere niente a che fare. Non capisco ancora bene cosa facciano in questo fashion trust: credo diano soldi ai giovani stilisti, non proprio una priorità in questo Paese. Quando ho scoperto il coinvolgimento di Chiara in quel giro, le ho detto che non ero d’accordo e che era mio dovere prendere pubblicamente le distanze: “Se fai così, devo dissociarmi.”»

In poche righe, Fedez mette a nudo l’incompatibilità di fondo che, più di qualsiasi tradimento, mina la coppia: ciò che per lui rappresenta una questione etica e politica, per Chiara appare come una scelta neutrale, quasi “di business”; ciò che per lei è immagine e networking, per lui è compromesso morale. Sono due linguaggi diversi, due modi opposti di intendere il potere, la visibilità e la responsabilità pubblica.

Il pandoro Gate è il colpo finale al matrimonio con Chiara Ferragni.

La vicenda del famoso video in tuta grigia, diffuso dopo lo scandalo del pandoro, è l’ennesima prova di questa frattura. Quello che doveva essere un gesto di trasparenza e di scuse si trasforma in un boomerang comunicativo, un’operazione fredda e studiata, orchestrata — come rivela Federico — da un’agenzia anticrisi, la stessa che in passato aveva curato il discorso di scuse di Maurizio Costanzo quando emerse la sua iscrizione alla loggia P2. Due epoche e due linguaggi completamente diversi: ciò che poteva funzionare negli anni Ottanta non può funzionare nell’era dei social, in un contesto dove ogni parola viene analizzata, smontata e reinterpretata in tempo reale. Il risultato, prevedibilmente, è un disastro mediatico.

E infine, la questione del milione di euro donato, un gesto che molti avevano letto come tentativo tardivo di redenzione, viene chiarita da Fedez in poche righe che suonano più come una dichiarazione di principio che come una giustificazione: l’idea della donazione, scrive, è stata sua, perché non voleva “avere in casa quei soldi sporchi”. Una frase che riassume perfettamente la distanza tra i due: per lui un problema di coscienza, per lei una strategia di crisi.

Il “metodo Lucarelli”: quando il giornalismo diventa arma

Successivamente al capitolo dedicato al Pandoro Gate, Federico affronta un tema che va ben oltre la cronaca rosa: denuncia un modo di fare giornalismo che, a suo dire, può distruggere persone e carriere con la stessa rapidità con cui genera consenso e visibilità. Il bersaglio è chiaro: Selvaggia Lucarelli, una delle figure più discusse del giornalismo italiano contemporaneo.

È lei che, per prima, ha fatto emergere il caso del pandoro benefico, accendendo i riflettori sulle campagne di solidarietà di Chiara Ferragni e sollevando dubbi sulla trasparenza delle operazioni. Ma, al di là dell’inchiesta, Fedez invita a guardare al modo in cui Lucarelli costruisce le sue battaglie pubbliche, sottolineando un doppio standard che mina la credibilità di un certo tipo di informazione.

Il rapper cita il caso di Giulia De Lellis, volata a festeggiare con le milizie israeliane insieme all’allora fidanzato, erede della famiglia Beretta, nota produttrice di armi impiegate anche nel conflitto in Palestina. Fedez si chiede come mai, in quell’occasione, Lucarelli — solitamente molto attiva sulla questione palestinese — non abbia scatenato la sua consueta crociata, limitandosi a un commento sulla “poca sensibilità” della De Lellis. È un interrogativo legittimo: se un episodio simile avesse riguardato i Ferragnez, probabilmente avremmo letto articoli e post per settimane.

Da qui nasce una domanda più ampia: perché tanto rigore con Chiara Ferragni e tanta leggerezza altrove? Fedez suggerisce una possibile risposta, insinuando che alla base ci sia un conflitto d’interessi. Selvaggia Lucarelli, infatti, è rappresentata dalla stessa agenzia di management della De Lellis, la Newco Management, fondata da Francesco Facchinetti. Una coincidenza che apre un interrogativo più profondo: se una giornalista ha un manager, e quel manager gestisce anche influencer e brand commerciali, quanta libertà resta davvero nella scrittura e nella scelta dei bersagli?

Federico non si ferma qui. Parla di un “giornalismo da social” in cui le inchieste si trasformano in contenuti virali, le opinioni si misurano in like, e la reputazione di una persona può essere demolita in poche ore. È la logica della visibilità, dove la verità diventa accessoria e la narrazione conta più dei fatti. Lo definisce il “metodo Lucarelli”: una modalità di lavoro in cui la linea tra indagine e spettacolo si dissolve, e la curiosità del pubblico sostituisce la responsabilità della verifica.

«Selvaggia Lucarelli non cerca la verità, incute paura», scrive Fedez. «E io ho rischiato di esserne vittima fino in fondo».
Dietro il tono polemico, però, si nasconde una domanda che va oltre la loro rivalità personale: quante delle nostre indignazioni digitali nascono davvero da una ricerca di giustizia, e quante invece dal bisogno di sentirci dalla parte giusta, di partecipare a una condanna collettiva che ci fa sentire moralmente superiori?

Il dissing tra Selvaggia Lucarelli e Fedez inizia da qui

Un esempio, che Fedez non cita ma che vale la pena ricordare, è l’inchiesta di Charlotte Matteini sull’azienda modenese Amabile, fondata dalla giovane imprenditrice Martina Strazzer, esplosa nel dibattito pubblico lo scorso Ferragosto. La giornalista aveva rivelato il caso di una dipendente incinta a cui non era stato rinnovato il contratto nonostante le promesse, sollevando una questione reale di diritti e discriminazione. Eppure, in quell’occasione, Lucarelli si era schierata dalla parte dell’imprenditrice, cercando di screditare Matteini e ribaltare la narrazione, arrivando persino a intervistare Strazzer per difenderla pubblicamente.

È difficile non notare come questo atteggiamento, probabilmente, non sarebbe stato lo stesso se la protagonista fosse stata Chiara Ferragni. E forse è proprio qui che si nasconde la verità più scomoda: non sempre il giornalismo che si presenta come giustizia è davvero disinteressato. A volte, dietro la patina della coerenza morale, si nasconde una logica di potere, visibilità e appartenenza che finisce per assomigliare troppo a ciò che dice di combattere.

Il tramonto dei Ferragnez – una questione di tradimenti

La storia tra Chiara Ferragni e Fedez si interrompe all’improvviso, senza preavviso, come un taglio netto. Un giorno erano ancora la coppia più seguita d’Italia, il giorno dopo tutto è finito. Il motivo, come ha rivelato Fabrizio Corona, riguarda i tradimenti: la crepa che mette fine a un matrimonio costruito sotto gli occhi di tutti. A marzo 2024, Federico decide di lasciare l’attico di City Life, sancendo così la rottura definitiva.

Falsissimo di Fabrizio Corona e la puntata più guardata con la storia tra Fedez e Chiara Ferragni

Prima di rendere pubblica la separazione, però, chiede a Chiara di aspettare. Non per salvare le apparenze, ma per una forma di rispetto: vuole parlarne prima con i figli, perché i bambini hanno il diritto di sapere la verità dai loro genitori, non di scoprirla dai compagni di scuola o dalle notizie online. Ma la richiesta cade nel vuoto. La notizia trapela comunque, e da quel momento Fedez decide di impedire alla moglie di pubblicare foto dei bambini, nel tentativo di proteggerli da una sovraesposizione che non hanno scelto. Non vuole che diventino parte di una strategia di comunicazione, un espediente per ripulire l’immagine familiare dopo il Pandoro Gate.

Ed è qui che emerge una lucidità di Federico che forse non ci saremmo aspettati. Comprende che restare insieme “per il bene dei figli” non è sempre la scelta più giusta e che i bambini crescono meglio con due genitori separati ma felici piuttosto che con due adulti che si ostinano a convivere infelici, prigionieri di un equilibrio falso. Soprattutto, riconosce a Leone e Vittoria il diritto a un’infanzia autentica, libera dalla costante spettacolarizzazione che per anni ha accompagnato la loro vita quotidiana.

Sì, la storia con Angelica c’è stata, ma non era una doppia vita come molti hanno voluto credere. Era piuttosto un legame intermittente, un contatto che si riaccendeva ogni tanto e che, proprio per questo, diventava più intenso. Con Chiara aveva costruito una relazione adulta, fatta di progetti concreti, scadenze, responsabilità e abitudini; con Angelica, invece, ritrovava il sapore del rischio, l’ebbrezza del segreto, la leggerezza della possibilità. Era un rapporto lontano dai riflettori, privo di narrazione, e forse proprio per questo più vero.

È in questa contrapposizione che si rivela la differenza tra le relazioni vissute nella sfera privata e quelle esposte pubblicamente. La coppia Ferragnez non era solo una relazione sentimentale, ma anche un prodotto mediatico, un racconto curato nei minimi dettagli, costruito per essere visto, commentato, condiviso. Noi, spettatori, abbiamo conosciuto soltanto la parte che decidevano di mostrarci, senza mai intravedere davvero cosa accadeva dietro le quinte.

Ecco, allora, la lezione che dovremmo trarre da questa storia: smettere di idealizzare le coppie dei VIP, ricordando che ciò che vediamo online raramente coincide con la realtà. L’amore non è solo estetica, filtri e storytelling: è anche fatica, compromesso, silenzio, tentativi andati male e giornate che scorrono tutte uguali. Con il tempo la magia si attenua, la novità svanisce, e ciò che resta è la capacità di restare dentro la quotidianità senza scappare, di accettare la calma dopo la tempesta.

Non serve inseguire per forza le farfalle nello stomaco, perché la vera pace spesso si trova proprio lì, accanto a qualcuno con cui puoi semplicemente respirare, senza dover fingere niente

Il tentativo di suicidio

«Non è il salto. Non è il colpo. Non è l’atto in sé. È tutto quello che succede prima. È la gestazione. Figlia di un lungo periodo di progettazione di tale atto. Un feto che cresce nel buio del cranio, che ti sussurra piano, ogni giorno, “basta”. Io ci sono arrivato dopo aver mollato gli psicofarmaci di botto, come si butta via un pacchetto di sigarette vuoto.»

Con queste parole Federico racconta il proprio tentativo di suicidio, una confessione asciutta e semplice. Il suicidio, come emerge dal suo racconto, non è mai l’atto in sé, ma il risultato di un percorso lungo e doloroso, un processo che nasce dal bisogno di anestetizzare il dolore e di mettere fine a un’esistenza che non sembra più appartenergli.

Nel libro ne parla con poche pagine come se non volesse indulgere nel ricordo, come se il solo tornare a quelle immagini lo costringesse a riaprire una ferita ancora pulsante. E forse è proprio per questo che le vere emozioni legate a quel periodo emergono altrove, nella musica.

In particolare in Allucinazione Collettiva, un brano che ascolto ancora oggi e che ho avuto la possibilità di sentire dal vivo al Forum il 19 settembre 2025: un’esperienza intensa, quasi catartica, che rende palpabile ciò che la scrittura, nel libro, lascia solo intuire.

È evidente che il senso profondo dell’intera autobiografia di Fedez si trovi proprio lì, nella musica, che per lui rimane la forma più autentica e naturale di confessione. Allucinazione Collettiva riassume tutto ciò che nel testo appare frammentato: la relazione complicata con Chiara, la difficoltà di convivere con la depressione e il tentato suicidio.

È stata Chiara a trovarlo, nascosto nell’armadio, circondato da blister di farmaci e bottiglie vuote. Da lì nasce il ricovero, gestito come un segreto da proteggere, un evento da mascherare per salvare l’immagine prima ancora della persona. È un passaggio terribile e umano insieme, il punto in cui capisci che l’estetica, per quanto potente, non può più contenere il dolore.

Rinascita dalle ceneri

Dopo la separazione, Federico sembra rinascere, anche se in modo disordinato e instabile, un ritorno ai suoi vent’anni, in pratica. Ricomincia a vivere senza filtri, senza preoccuparsi troppo di apparire coerente o “giusto”. Frequenta persone diverse, esce con chi gli pare — anche con figure “poco raccomandabili”, come figure implicate nel caso Iovino (terminato nel nulla, ndr) — e scrive, con una punta di rabbia e liberazione:

«Ho trentacinque anni: nemmeno mia madre può rompermi le palle su chi frequento. Sono libero di uscire con chi voglio.»

Vive alla giornata, come se stesse tornando ai suoi vent’anni, riscoprendo una leggerezza che forse non aveva mai conosciuto davvero. Interrompe la psicoterapia e sospende i farmaci, lamentando troppi effetti collaterali: una scelta che potrebbe lasciare perplessi, perché un disturbo radicato e cronico non sparisce semplicemente smettendo di curarlo.

Arriviamo così a uno degli aspetti più curiosi e controversi del libro: le foglie del destino. Federico ne parla anche in un episodio di Pulp Podcast, raccontando di un’antica leggenda indiana secondo cui in alcuni templi esistono rotoli di papiro che contengono informazioni sul passato, presente e futuro di chi sceglie di “mettersi in contatto con l’India”. Non tutte le persone hanno una propria foglia, ma solo coloro che, in qualche momento della loro esistenza, decidono di cercarla, come se quel gesto fosse già scritto nel loro percorso.

Fedez racconta la sua esperienza con queste foglie e, lo ammetto, faccio fatica a non provare scetticismo. Mi colpisce che una persona così razionale e analitica possa affidarsi a qualcosa di così mistico, che sfiora il soprannaturale. In queste pratiche si sostiene che il destino di ciascuno sia tracciato, ma che si possa modificare accumulando “punti karmici”, compiendo buone azioni suggerite dai monaci lettori.

Fedez e le foglie del destino

Un episodio racconta di un monaco che gli chiede di donare denaro per aiutare un piccolo villaggio indiano a far nascere dei vitelli. Una ventina di euro, nulla che possa impoverirlo, certo, ma abbastanza per creare un precedente: se migliaia di persone, dopo aver letto il libro o ascoltato il podcast, decidessero di rivolgersi agli stessi intermediari, cosa accadrebbe?

Ndr, personalmente trovo tutto questo inquietante, non tanto per il denaro, ma per l’idea stessa di affidare il proprio futuro a una narrazione magica. Preferirei vedere Federico di nuovo in terapia, con i piedi nella realtà, come suo solito, piuttosto che ancorato a un simbolismo esotico che rischia di diventare dipendenza emotiva.
Capisco il bisogno di trovare un senso, soprattutto dopo un trauma, ma quando la spiritualità diventa rifugio da ciò che non si riesce ad affrontare, il rischio è quello di perdersi ancora di più.

Federico racconta di aver provato tutte le terapie possibili, persino la TEC (terapia elettroconvulsivante – o elettroshock), ma con risultati limitati. Non lo giudico, ma mi inquieta la sua deriva verso pratiche non scientifiche: mi sembra il segno di una vulnerabilità profonda, di una ricerca di pace che si trasforma facilmente in smarrimento.

Battito

Se oggi siete qui a leggere questa recensione sull’autobiografia di Federico Lucia è anche perché lui ha avuto il coraggio di rimettersi in gioco scegliendo di tornare a Sanremo nel 2025 con una nuova canzone, Battito, in cui racconta a cuore aperto il suo periodo depressivo, insieme alla reinterpretazione di Bella Stronza, cantata con Marco Masini nella serata delle cover, quasi come un rito simbolico per chiudere definitivamente il capitolo Angelica.

Quello che Federico non si sarebbe mai aspettato è che proprio Battito, un brano personale e privo di sovrastrutture, sarebbe riuscito a toccare così profondamente il pubblico, arrivando dritta ai cuori di tanti italiani e segnando per lui un momento di rinascita, come se dopo una lunga linea piatta il tracciato dell’elettrocardiogramma fosse tornato finalmente a muoversi. È il simbolo di un ritorno alla vita, di un corpo e di un’anima che ricominciano a sentire (ovviamente sempre in mood Fedez, non aspettatevi un Umpa Lumpa di felicità).

Con questo brano Federico fa, finalmente, ciò che è sempre riuscito a fare bene: esprimere le sue emozioni usando la musica come strumento di verità. Non cerca di apparire guarito, né vuole dare lezioni a nessuno; mostra semplicemente se stesso, con le crepe e le ricadute I suoi demoni non sono spariti, ma oggi prova, a modo suo, a gestirli, affrontandoli e soprattutto scegliendo di agire invece di farsi divorare dal silenzio.

Fedez canta “Battito” nella prima serata del Festival di Sanremo 2025

«Quando sto da solo, i demoni arrivano. Proprio i demoni, senza volto o con il mio: con gli occhi neri, come i miei a Sanremo. Dita lunghe e sguardi vuoti. E quindi esco. Parlo con gente. Gente che conosco da sempre o che ho appena conosciuto, non importa. Tutti loro hanno lo stesso problema. Le persone che frequento soffrono della stessa patologia. L’incapacità di essere soli non è più un tratto patologico, è diventata una condizione antropologica.»

In questo passaggio, Federico non parla solo di sé, ma anche di noi. Racconta di come la depressione, ormai, sia diventata quasi un tratto della contemporaneità, una condizione collettiva che non riguarda più solo chi “sta male”, ma chiunque viva immerso in una società che non sa più fermarsi, che non regge la solitudine e che si tiene in piedi solo barcamenandosi tra un giorno e l’altro, cercando di sopravvivere a un’esistenza che, a tratti, sembra sempre più una merda.

Conclusioni sul perchè di questo libro

Cosa possiamo dire, allora, di questo libro? Forse che è la prima volta in cui un influencer si mette davvero a nudo, raccontando i lati luminosi e quelli più oscuri della propria vita senza barriere e senza la necessità di mantenere un’immagine costruita. Federico scrive ciò che sente, con l’urgenza di chi ha bisogno di chiudere un ciclo per poterne aprire un altro. È la confessione di un uomo che, per anni, abbiamo guardato come un personaggio distante, apparentemente perfetto, e che invece si rivela vulnerabile.

Questo libro è la prova che la fama e la ricchezza non comprano la felicità, anzi: spesso la amplificano, trasformando le crepe in voragini. Federico ci mostra che anche chi “ha tutto” può cadere negli abissi e che, paradossalmente, proprio lì sotto, nel fondo, puoi ritrovarti.

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